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Le otto montagne di Paolo Cognetti

“Mio padre aveva il suo modo di andare in montagna. Poco incline alla meditazione, tutto caparbietà e spavalderia. Saliva senza dosare le forze, sempre in gara con qualcuno o qualcosa, e dove il sentiero gli pareva lungo tagliava per la linea di massima pendenza. Con lui era vietato fermarsi, vietato lamentarsi per la fame o la fatica o il freddo, ma si poteva cantare una bella canzone, specie sotto il temporale o nella nebbia fitta. E lanciare ululati buttandosi giù per i nevai.”

Così si apre il racconto raffinato e suggestivo di Cognetti; racconto che attraverso lo sguardo esperto dell’autore, ci fa immergere nel mondo ovattato ma allo stesso tempo duro e aspro della montagna. Lo stile asciutto, diretto ma d’impatto poiché preciso, è la cifra giusta per narrare di un universo fatto di sacrificio, solitudine, intimità e meditazione.

Pietro, protagonista della storia, imparerà grazie al padre, chimico, lavoratore impeccabile, sposato con una donna che condivide con lui questa grande passione per la natura, ad amare la montagna. La conoscerà per aver fatto innamorare i suoi genitori, per aver dato conforto al padre stremato dalla vita di città e anche per avergli fatto scoprire il significato della parola amicizia.

Sì, perché la storia di Pietro si intreccerà presto a quella di Bruno. Un rapporto fatto di silenzi, conversazioni interrotte, parole sospese; un legame che supererà le loro differenze.

Da un lato un giovane ragazzino di città e dall’altro uno di montagna, che conosce la fatica, il lavoro e la crudeltà della natura, costretto a crescere in fretta e a responsabilizzarsi.

Nonostante i lunghi periodi di distanza, ogni volta che i due avranno modo di incontrarsi a Grana, paesino ai piedi del Monte Rosa dove la famiglia di Pietro riuscirà a trovare la pace necessaria, stando lontani dalla vita caotica della città, sembrerà non essere passato un solo giorno.

“Bruno aspettava quel giorno con la mia stessa trepidazione. Solo che io andavo e venivo, lui restava.(…)

Ed era vero: gli ultimi mesi venivano cancellati di colpo, e la nostra amicizia sembrava vivere un’unica infinita estate.”

Esploreranno i luoghi selvaggi e saranno testimoni di quello che è il rapporto uomo-uomo, molto spesso poco raccontato ed estremamente delicato da analizzare. Senza bisogno delle parole saranno legati indissolubilmente per la vita.

Ma il racconto è permeato anche dalla consapevolezza, data dal passare degli anni, che quel microsistema brutale, legato a filo doppio ai ritmi della natura, così incostante e a volte malevola, si sta perdendo.

La malinconia e il ricordo di ciò che è stato, saranno temi portanti della narrazione; inizialmente il desiderio incontenibile dei genitori di perdersi per i sentieri nevosi e ghiacciati delle Alpi, poi la necessità del figlio di ritrovare la sua dimensione, quella fatta di amicizia quanto di introspezione.

“Non ricordavi bene perché mi fossi allontanato dalla montagna, né che cos’altro avessi amato quanto non amavo lei, ma mi sembrava, risalendola ogni mattina in solitudine, di farci lentamente la pace.”

Evocativo, sentimentale, profondo ed estremamente personale, questo racconto può solo lasciarvi una traccia indelebile.

Questo libro è pura delicatezza e con questa che per me è una delle parti più significative del romanzo, vi lascio alla lettura.

“Era tutto. Quando mia madre finì il suo racconto mi vennero in mente i ghiacciai. Il modo in cui mio padre me ne parlava. Lui non era uno che tornava sui propri passi, né amava ripensare ai giorni tristi, però certe volte, in montagna, anche su quelle montagne vergini dove non era morto nessun amico, guardava il ghiacciaio e qualcosa nella sua memoria veniva a galla. Diceva così: che l’estate cancella i ricordi proprio come scioglie la neve, ma il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato. Soltanto adesso capivo di cosa parlava. E sapevo una volta per tutte di aver avuto due padri: il primo era l’estraneo con cui avevo abitato per vent’anni, in città, e tagliato i ponti per altri dieci; il secondo era il padre di montagna, quello che avevo solo intravisto eppure conosciuto meglio, l’uomo che mi camminava alle spalle sui sentieri, l’amante dei ghiacciai. Quest’altro padre mi aveva lasciato un rudere da ricostruire. Allora decisi di dimenticare il primo, e fare il lavoro per ricordare lui.”

Nicole Zoi Gatto

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