Anche quest’anno i Bookanieri partecipano al Gruppodiletturaday. Il libro scelto è Le stanze dell’addio di Yari Selvetella, edito Bompiani e tra i 12 finalisti del Premio Strega 2018.
La lettura di questo romanzo è un’esperienza impegnativa, che coinvolge tutti i sensi e richiede una certa predisposizione d’animo. Parlare di perdita, di morte, di elaborazione del lutto non è mai facile, è come camminare su un campo minato. Ogni passo è potenzialmente rischioso, è necessario procedere lentamente, ma non troppo (il rischio è quello di restare fermi, incapaci di proseguire).
Sin da subito ci imbattiamo in un uomo privo di riferimenti solidi, che incespica in un’esistenza che è stata come amputata della sua stessa essenza. Egli sta attraversando lo spazio desolato lasciato dalla perdita di sua moglie, e lo fa a modo suo, aggrappandosi ai ricordi di una vita vissuta felicemente, per quanto possibile. Il lettore entra così, senza preavviso, in questa sottospecie di limbo, senza avere il tempo di “abituarsi”.
All’autore non interessa creare un cuscinetto su cui chi legge possa atterrare per non farsi male, ciò che importa è raccontare un percorso che potremmo definire di trapasso, prima inconsapevole, poi necessario per la sopravvivenza.
Elaborare il lutto vuol dire innanzitutto non accettarlo, cercare nel mondo tutti gli elementi che possano fornire un segno del passaggio dell’amata. I corridoi, le stanze, le finestre, il paesaggio, gli altri pazienti: tutti diventano strumento perché a quest’uomo arrivi la conferma che no, non è possibile, non è successo. Ma, per chi ha perso qualcuno, il mondo è sempre inospitale, si gira dall’altro lato per non incrociare lo sguardo. Tutto il mondo tranne una persona, il barista dell’ospedale, che ha visto giorno dopo giorno quest’uomo, zaino in spalla, metodico nel suo incalzare, e che ha oltrepassato il velo delle buone maniere, del vivere civile, e ha teso una mano.
Come dicevo all’inizio, la lettura è stata difficile. Ho dovuto fermarmi e riprendere, più e più volte, per quel senso di claustrofobia perenne, anche davanti agli spazi aperti, che la storia ti getta addosso. Niente conforto, niente giubbotto di salvataggio, niente empatia, proprio così. Il lettore non può empatizzare con un dolore chiuso, in cui il protagonista è murato vivo; non può creare nessun collegamento emotivo con una scrittura privata, discontinua, che non lascia appigli a chi non ha vissuto quei ricordi.
Al termine della lettura, si ha quasi un senso di sollievo: adesso posso tornare finalmente a respirare dopo l’apnea. Ma resta sempre una incompletezza, qualcosa di irrisolto, destinato a non avere pace.
Giovanna Nappi