Con Addio fantasmi, Nadia Terranova si classifica con Einaudi tra i cinque finalisti del Premio Strega 2019 raccontando una forma di dolore inedita, quella della scomparsa.
Ida, protagonista del romanzo, torna in Sicilia, a Messina, dietro richiesta di sua madre, per mettere ordine oggetti e cianfrusaglie accumulati in una vita trascorsa nella casa di famiglia. La stessa casa in cui, 23 anni prima della narrazione, suo padre Sebastiano – che soffriva di depressione – decide di scomparire, abbandonando il tetto coniugale e una figlia che resterà per sempre monca di quella figura genitoriale.
Inizia così l’accorato racconto della protagonista, che lascia temporaneamente Roma, dove adesso vive con Pietro, suo marito, per tornare in quelle terre da cui è scappata per fuggire un dolore che era diventato ingestibile. La storia che leggiamo è come un flusso di coscienza, in cui Ida rientra a contatto con luoghi e persone che conservano nella sua memoria un significato funzionale a giustificare quella scomparsa. Quella scatola rossa, conservata in un cassetto per anni, in cui racchiude un ricordo del quale Ida non vuole parlarci; l’amica Sara, che è stata l’unica ad ottenere il lasciapassare per quella casa-spettro di quando era bambina; sua madre, che non è una madre qualunque, ma colei che è rimasta mentre suo padre è andato via, chissà dove, colei che ha mal gestito quell’avvenimento, colei che non ha agito da adulta in quel buio periodo.
Quello del rapporto di Ida con sua madre è uno dei temi più violenti e più intensi di Addio fantasmi. Le parole di Nadia Terranova sono lance che vengono scagliate dall’una contro l’altra, sono armi che feriscono usate per ferire, sono parole taglienti, recriminatorie, che svelano una relazione irrisolta come irrisolta è la vicenda della scomparsa di quel padre di cui sappiamo così poco. Ma in questa guerra madre-figlia non esistono vincitori, solo due donne sconfitte che portano il peso della mancanza sulle proprie spalle.
L’incapacità di gestire una scomparsa, di mettere un punto come solo la morte potrebbe fare, ha come risultato un senso di sospensione del tempo e dello spazio, di dickensiana memoria. Come Miss Havisham, anche Ida vive reclusa – non in una casa, ma nel ricordo di suo padre: anche per lei il tempo è fermo alle 6.16, destinato a ripetersi all’infinito perché non ci sarà mai una conclusione per questa vicenda.
Nell’ossessione di ricercare spiegazioni laddove non ce ne sono, nell’accanimento di non vivere davvero se non rinchiusa nella fortezza del proprio dolore, Ida è inaccessibile al lettore stesso che fatica a trovare un punto di contatto con lei. Sebbene la scrittura sia intensa, estremamente densa di significati e rimandi, risulta difficile trovare un punto di incontro. Non esistono ponti tra Ida e il resto del mondo, neanche con suo marito, con nessuno.
Il lettore si nutre così della narrazione “sensoriale” di Nadia Terranova come con una fonte cui abbeverarsi ma che non disseta mai; si aggrappa agli oggetti di quella casa, a quel terrazzo sbilenco, agli scatoloni, alle buste nere, ma ne resta asfissiato e senza risposte. Fino alla fine.
La difficoltà di questo romanzo resta irrisolta anche alla sua conclusione, nonostante il finale, che purtroppo non ha trovato la mia completa soddisfazione e che invece di accorciare le distanze tra Ida e il lettore le ha definitivamente compromesse.
Giovanna Nappi