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Requiem per un sogno di Hubert Selby Jr.

Dare rilievo e nobiltà al disagio esistenziale, innalzare a poesia la sofferenza di una generazione, parlare in maniera nuda e cruda di quello che più di tutto fa marcire l’animo, la dipendenza, è quello che ha reso il mio primo approccio a Selby, devastante.

Nella prefazione alla nuova edizione di Requiem per un sogno (del 1999), ripubblicato in Italia da Sur quest’anno con traduzione di Adelaide Cioni e Grazia Giua, Selby scrive:

Per molti, il Grande Sogno Americano si sta avverando. Ovviamente, io credo che inseguire il Sogno Americano non sia soltanto futile ma autodistruttivo, perché in ultima analisi distrugge tutto ciò e tutti coloro che coinvolge. Lo fa necessariamente, per definizione, in quanto alimenta tutto tranne le cose importanti: l’integrità, l’etica, la verità, il nostro cuore e la nostra anima. Perché? La ragione è semplice: perché la Vita/la vita consiste nel dare, non nell’avere.

E ancora

A me sembra che tutti noi abbiamo un nostro sogno, una nostra visione personale, il nostro particolare modo di dare, ma che per molte ragioni abbiamo paura di seguirlo, o anche solo di riconoscerne e accettarne l’esistenza. Ma negare la nostra visione equivale a venderci l’anima. Accumulare significa vivere una menzogna, voltare le spalle alla verità, mentre le Visioni sono momenti in cui intravediamo la verità: è evidente che non c’è nulla di esterno che possa davvero alimentare la mia vita interiore, la mia Visione.

Quello che unisce i personaggi del romanzo di Selby, estremamente vivi, vibranti e sofferenti, anche se in modi diversi, è la visione di una vita possibilmente diversa da quella che conducono, una possibilità di riscatto sociale e personale che si andrà a intrecciare alle loro debolezze, lasciandoli invischiati nell’universo malato ma confortevole che si sono creati.

Bronx, anni ‘70.

Sara Goldfarb ha una dipendenza per la televisione. La sua vita ruota attorno a una scatola che trasmette immagini di continuo, immagini che la consolano, le fanno compagnia e alleviano la sua profonda solitudine; vedova e madre di un tossico, Sara avrà la sua possibilità di concludere finalmente qualcosa nella sua piatta vita, quando a seguito di una telefonata, si illuderà di poter partecipare a un programma televisivo. Sarà spronata a mettersi a dieta – mangia cioccolatini ripieni con una passionalità sessuale; stupende le pagine in cui viene descritto l’atto di mordere un cioccolatino con ripieno alla ciliegia – ma questo stesso spiraglio di vita, la condurrà ancora più in basso, creando in lei una dipendenza da pillole dimagranti, anfetamine a tutti gli effetti. Doloroso leggere del suo fallimento.

Harry, il figlio, è un tossico, passa le sue giornate fra canne ed eroina, con il suo amico Tyrone e la sua amata Marion, dipendenti dalle droghe anche loro. Esistenze spese nel torpore del fumo; sogni abbandonati, vite sospese.

A nulla varrà la decisone di Harry e Tyrone di lavorare per qualche tempo di notte, caricando furgoni per la distribuzione dei giornali, per mettere da parte il necessario per comprare una grossa partita di roba da rivendere e con i soldi guadagnati, cambiare vita.

L’ oscurità non lascerà spazio alla luce. Verranno avvolti da essa, sbattuti in una gabbia dalla quale uscire sarà impossibile. Il fallimento è inevitabile, il risultato davanti ai nostri occhi: si bucheranno sempre più, affonderanno fino al collo nel mondo dell’incoscienza e delle droghe, senza scampo.

Perché la vita è così, non ti fa sconti e non ti lascia scampo. Devi fare i conti con le tue azioni, con i tuoi errori e con i tuoi pensieri.

La forza della storia è amplificata dallo stile dell’autore: un flusso di coscienza quasi privo di punteggiatura, un linguaggio impregnato della vita che aveva vissuto in prima persona, una vita fatta di tossici, inetti, prostitute, una vita segnata sin dalle prime ore dalla sofferenza ( racconta di essere nato dopo essere morto, con il cordone ombelicale legato intorno al collo da 36 ore). Sì, perché di sofferenza si tratta, non di semplice dolore. Come Selby stesso afferma in una sua intervista:

la funzione della sofferenza è farci capire che stiamo vedendo le cose in maniera distorta. Stiamo giudicando certe cose naturali in maniera tale da crearci da soli una sofferenza. Faccio un esempio. Provi dolore per certi fatti, certe situazioni che capitano, e se dici semplicemente: «Ok, eccomi qua. Ora sperimenterò questo dolore», non soffri. Cercare di resistere ai fenomeni naturali della vita provoca sofferenze enormi.

Le vite che animano il romanzo sono ricche di una sofferenza estrema, una di quelle che si incollano addosso, che aderiscono alla pelle di chi legge ostruendone i pori, non facendola più respirare.

È un testo difficile, estremo, ma vero in ogni sua più brutale parte. Ed è per questo che Selby dovrebbe essere letto ancora, perché nonostante Requiem sia stato scritto nel 1978, è più attuale di molti testi contemporanei.

Per chi volesse segnalo un approfondimento: Selby raccontato da Luca Briasco che potete trovare qui.

Qui il link al trailer del film diretto da Darren Aronofsky.

E qui un’intervista all’autore che vi consiglio.

Sì, mi sto appassionando a Selby e ho intenzione di leggere tutto quello che ha scritto.

La voce così piena di nostalgia che sembrava quasi di vedere i ricordi fluttuare nel fumo azzurro, ricordi non solo di musica e gioia e giovinezza ma forse anche di sogni. Ascoltavano la ,unica, ciascuno a modo suo, sentendosi rilassati e parte della musica, parte gli uni degli altri, quasi parte del mondo, quasi.

Nicole Zoi Gatto

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