Dopo il successo e i riconoscimenti internazionali de La ferrovia sotterranea – il National Book Award e il premio Pulitzer per la narrativa –, Colson Whitehead torna in Italia con I ragazzi della Nickel, pubblicato da Mondadori nella traduzione di Silvia Pareschi.
Whitehead sceglie di ambientare la sua storia negli anni Settanta, all’interno delle mura della Nickel, riformatorio per minorenni fatto passare per una sorta di centro rieducativo.
Quanto deciderà di raccontare è ispirato ai fatti che avevano coinvolto la Dozier School of Boys in Florida, all’epoca definita dai media la “Scuola degli orrori”: in seguito ad alcuni scavi effettuati in prossimità dei terreni circostanti, furono infatti scoperti oltre 50 cadaveri di ragazzi che di quell’istituto erano stati “ospiti”, rivelandone la natura depravata e orrorifica di uccisioni, stupri di gruppo e molto altro.
A partire da un fatto di cronaca, Whitehead inserisce al suo interno alcuni ragazzi, che alla Nickel sono finiti per aver commesso dei reati o semplicemente perché era lì che sarebbero dovuti finire.
È il caso di Elwood, giovane ragazzo dal futuro che ci azzardiamo a definire promettente, caparbio nel perseguire i suoi obiettivi e innocuo, gentile, pacato.
E ad Elwood si rivolge con naturalezza il lettore come primo interlocutore del romanzo: l’introduzione alla sua vita prima della Nickel, la descrizione meticolosa delle sue abitudini e ambizioni, della sua routine a suon di discorsi di King e così via.
Peccato che ad un certo punto la necessità di raccontare la Nickel e i suoi macabri meccanismi costringa Whitehead ad accantonare Elwood, concentrandosi sugli altri abitanti della Casa degli orrori.
Le spalle di questi personaggi satelliti raccontano storie complesse, di maltrattamenti, tentativi di fuga, colpi quasi mortali, che si sovrappongono in maniera confusionaria come una serie di narrazioni indipendenti, che avrebbero forse avuto maggiore valore e forza se sviluppate una alla volta, in racconti assestanti.
Sebbene sia più che palese la volontà di servirsi della storia singola per raccontare una Storia di respiro nazionale, il risultato è una frammentarietà che interrompe la narrazione.
Di tanto in tanto ricompare la figura di Elwood, sempre più malconcio ma ancora convinto di poter fare la sua parte affinché questa detenzione si concluda nel migliore dei modi, ma è una mosca bianca ormai schiacciata dallo sciame dei suoi compagni.
Il flusso narrativo si concentra su un volto, poi su un altro, ma l’effetto è straniante. Per questi volti condividere uno status, vale a dire quello di ragazzi neri in un istituto che accoglie il razzismo come suo legittimo sposo, non basta a far procedere la lettura.
A complicare il tutto, una voluta interruzione temporale non così semplice da decifrare.
Ci ritroviamo infatti a distanza di anni dal periodo in cui quei ragazzi hanno visto e subìto cose inimmaginabili, ma stentiamo a capire di chi si tratti: chi ha avuto l’onore (o l’onere?) di sopravvivere? Ancora uno spaesamento di cui non sentivamo il bisogno.
Le pubbliche acclamazioni, come le pubbliche umiliazioni, sono un’arma a doppio taglio, perché rischiano di caricare l’aspettativa media del lettore ad un livello superiore al necessario. Ed è proprio quello che è capitato con I ragazzi della Nickel: promettente, ispirato – almeno a livello teorico – ma poco coerente.
Nota positiva, il tratto stilistico di Colson Whitehead, che è stato in grado di colmare, a tratti, il vuoto di un intreccio dalla struttura debole con una prosa semplicissima eppure di grande impatto emotivo.
Giovanna Nappi