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Un altro tamburo

Un altro tamburo di William Melvin Kelley

Un altro tamburo, prima pagina:
Estratto dall’Almanacco in miniatura, 1961… pagina 643:

[…] LE ORIGINI – DEWEY WILLSON:

Benché la sua storia sia ricca e varia, lo stato è principalmente noto per essere la patria del Generale confederato Dewey Wilson, nato nel 1825 a Sutton, un piccolo centro 43 chilometri a nord della città portuale di New Marsails, affacciata sul golfo. Diplomatosi presso l’Accademia militare di West Point (classe del 1842), prima dello scoppio della Guerra civile Willson raggiunse il grado di colonnello dell’Esercito federale. Al momento della secessione dello stato, nel 1861, rinunciò all’incarico e ottenne il grado di Generale dell’Esercito confederato. Fu il principale artefice delle due note vittorie sudiste a Bull’s Horn Creek e ad Harmon’s Draw, quest’ultima combattuta a meno di cinque chilometri dal suo luogo natale. La vittoria di Harmon’s Draw sventò definitivamente i tentativi dei nordisti di raggiungere e conquistare New Marsails.

Nel 1870, con la riammissione dello stato nell’Unione, Willson ne divenne il governatore. Poco dopo scelse il sito e iniziò la costruzione della nuova capitale dello stato da lui in larga parte progettata, che porta ora il suo nome. Nel 1878, ritiratosi a vita privata, tornò a Sutton. Il 5 aprile 1889, appena rientrato dall’inaugurazione di una sua statua in bronzo alta tre metri eretta dai cittadini di Sutton nella loro piazza, fu colto da una sincope e morì. Viene considerato da molti storici come il più grande generale della Confederazione dopo Lee.

STORIA RECENTE:

Nel giugno del 1957, per ragione ancora da stabilire, tutti gli abitanti neri dello stato ne hanno abbandonato il territorio. A tutt’oggi è l’unico stato dell’Unione che non conta fra i suoi cittadini neanche un membro della razza nera.

***

Un altro tamburo

Si apre così il romanzo di William Melvin Kelley Un altro tamburo, edito nel 2019 da NN Editore nella traduzione di Martina Testa. Un inizio originale, si potrebbe pensare, in cui è lo Stato in tutta la sua presenza giuridica a descrivere il doveroso preambolo ai fatti che interessarono la cittadina di Sutton, un paesino del sud degli Stati Uniti inventato appositamente per questa storia.

È un giovedì come un altro e a Sutton sta per verificarsi un fatto di straordinaria portata: il primo nero ad essere diventato proprietario terriero, tale Tucker Caliban, decide di bruciare i campi, uccidere il proprio bestiame, dare fuoco alla sua casa e abbandonare la città per andarsene altrove.

Al gesto di Tucker Caliban segue un’ondata migratoria di afroamericani non soltanto nella cittadina di Sutton ma anche altrove: sembra che tutti i neri del Paese abbiano deciso di andarsene per raggiungere il Mississippi, l’Alabama o il Tennessee.

La comunità bianca di Sutton assiste attonita ad un cambiamento che non avrebbe potuto in nessun modo prevedere. Prima incuriosita da un gesto che definire desueto sarebbe riduttivo, poi perplessa rispetto alle motivazioni – se motivazioni ci sono a giustificazione del fatto -, infine preoccupata rispetto alle sorti dell’intero paese e quindi delle proprie vite.

Le fasi di osservazione e analisi dell’accaduto vengono prendono così il via dal racconto dei bianchi. Strano, anche in questo caso, che a dare la voce agli afroamericani siano proprio i loro padroni; ancor più strano, se si considerano le origini dell’autore.

Melvin Kelley, scomparso nel 2017, è un autore afroamericano esponente del Black Arts Movement; laureato ad Harvard, esordisce nel 1962 con Un altro tamburo. Nella vita è stato autore di romanzi e racconti, oltre che giornalista e professore universitario.

Quindi, che Melvin Kelley abbia dato la parola ai carnefici della Storia della segregazione sembrerebbe fuorviante, ma non lo è. Gli abitanti di Sutton, tra ilarità e apprensione, si interrogano su cosa stia accadendo, ma nessuno di loro pare essere in grado di comprendere il gesto di Tucker Caliban.

I punti di vista diversi con cui la vicenda viene narrata sono inadatti a dare forma e consistenza ad una questione che in fin dei conti non li riguarda: a nessuno di loro è dato di capire le vere ragioni di quell’uomo, né la sua condizione reale, né i suoi desideri (ammesso che i desideri siano contemplati per una persona come quella).

L’alternarsi dei loro commenti è una traccia a mio avviso inedita per mostrare l’incomunicabilità tra due mondi che pure convivono da decenni sulla stessa terra ma che non hanno niente da dirsi.

Non soltanto agli uomini, ma anche ai bambini è offerta l’occasione di dare la parola: è il caso del piccolo Harold, chiamato da tutti il signor Leland.

«Torna indietro, signor Leland. Dammi retta.»

«Ma tu dove vai?». Tirò su col naso e piegò indietro la testa. «Tu non sei davvero indemoniato, vero, Tucker? O sì?».

Tucker si fermò e posò una mano sulla testa del bambino, che si irrigidì. «Ah, dicono così, signor Leland?».

«Sissignore».

«E secondo te è vero? ».

Il signor Leland guardò Tucker negli occhi. Erano grandi e troppo accesi. «Be’… ma allora perché hai fatto tutte quelle cose da pazzo indemoniato? ».

«Tu sei giovane, vero, signor Leland? ».

«Sì».

«E non hai mai perso niente, o sbaglio? ».

Il bambino non capì e non disse nulla.

Di quale perdita si tratta? Il signor Leland se lo chiede, rivolgendo a sua volta la domanda a suo padre, nel tentativo di sbrogliare la matassa e fare chiarezza in una situazione che per lui, più che per gli adulti, non comprende. Perché un suo amico dovrebbe essere così sconsiderato, così indemoniato, come non fanno che ripetere i grandi?

Indagare le ragioni di Tucker Caliban non è d’altronde quello che l’autore ci chiede di fare. Attorno alla sua figura si raccogliere una specie di aura mitica, accresciuta dal racconto dei suoi antenati, che lo allontana ulteriormente dall’immaginario terreno degli abitanti bianchi.

Un’interruzione dell’andamento di voci alternate viene offerto dall’ingresso nella scena, a più riprese, di un personaggio. Questi compare con aria da divo, nella sua auto di lusso, col principale scopo di capire cosa sia davvero successo.

È un reverendo, nero a sua volta, che è deciso ad ottenere un resoconto dei fatti. La sua partecipazione è spiazzante per diverse ragioni. Interrogando il signor Leland, ammette che quanto accaduto compromette la sua posizione.

Se il suo ruolo, nella società afroamericana, è quello di dare speranza al prossimo e di proiettare le menti dei fedeli verso una libertà che di fatto questi non hanno, il taglio netto di Tucker e di chi lo ha seguito compromette la sua stessa ragion d’essere.

È come se la libertà, nel suo significato più vero, esista più come aspirazione che come realtà effettiva. Comprendere questo aspetto significa comprendere la contraddizione dell’animo umano.

Allo stesso modo gli abitanti di Sutton, privati delle loro braccia di lavoro, devono riempire un vuoto di significato che l’autore sa fare perfettamente in un finale che mi auguro vi godrete al massimo.

Un altro tamburo acquista più valore di altri libri che hanno trattato la segregazione razzista inflitta alla popolazione nera americana perché è in grado di mostrare quanto semplice possa apparire un gesto significativo come quello di Tucker Caliban. La rivendicazione non passa necessariamente per vie sanguinarie, ma non per questo è meno importante, o rivoluzionaria.

Anche quella di Melvin Kelley è Un’altra America.

Giovanna Nappi

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