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Una vita come tante

Una vita come tante, Hanya Yanagihara

Un libro che è capace di far nascere grandi discussioni è di per sé un buon libro. Questo è ciò che penso se riprendo in mano Una vita come tante, romanzo di Hanya Yanagihara, pubblicato in Italia da Sellerio nella traduzione di Luca Briasco.

Romanzo portentoso, perlomeno nelle dimensioni – si parla di oltre mille pagine – che ha diviso il pubblico di lettori che l’hanno letto.

C’è chi grida al capolavoro, chi alla delusione. Ma la verità qual è?

Non mi arrogherò di certo la pretesa di rispondere a questa domanda, ma proverò a raccontarvi cosa è stato per me Una vita come tante.

Letto assieme a molte persone per un gruppo di lettura condivisa, ha scandito il mio tempo libero dell’ultimo mese con una regolarità sorprendente, che non dedico neanche ai miei doveri.

Quello che è capitato, io credo, è che una volta iniziato sia nato in me il bisogno di continuare a leggerlo, ancora e ancora, e di concluderlo il prima possibile.

Se da un lato, questo è il sintomo di una fluidità di narrazione di cui devo dare atto a Yanagihara, dall’altra è il sintomo di un problema: il lettore è catapultato in una storia che non gli piace, di cui vuole sapere di più ma da cui viene respinto.

Ma procediamo con ordine: ci troviamo a New York, dove si riuniscono quattro amici, con trascorsi e personalità diverse.

Willem, con velleità artistiche sul mestiere dell’attore, che lavora in un bar frequentato dalla “gente giusta” in attesa dell’occasione che cambierà il corso della sua vita. È bello, piace a tutti.

Jude, dal carattere schivo e introverso, molto dotato e studioso, sta intraprendendo la carriera di avvocato. Non sappiamo molto altro di lui. La sua è più una negazione che una caratterizzazione: sappiamo ciò che non fa, ciò che non mostra, ciò che non dice.

Malcolm è un architetto che si barcamena all’interno di uno studio dove personalità e ambizioni vanno messe da parte. Equilibrato, perlomeno così ci appare, o direi piuttosto scialbo, dimenticabile.

Infine, JB, eccentrico ed estroverso, con una famiglia di donne che lo amano moltissimo. È un artista a New York, vale a dire uno dei milioni di artisti che popolano la city.

Li incontriamo pressoché ventenni e li accompagniamo per i loro prossimi trent’anni di vita. Questo lasso di tempo sarà lo spazio entro il quale a poco a poco Jude, antieroe e anti-protagonista, scoprirà i propri scheletri.

Il progressivo incedere della trama scandirà infatti la nostra graduale conoscenza di Jude, di chi è veramente, da dove viene, cosa non dice.

Chiamarlo anti-protagonista non è casuale: Jude sfugge a qualsiasi logica di categorizzazione, sia come personaggio nella struttura narrativa che come persona all’interno della storia.

È un ragazzo che ha subito sulla propria pelle così tante sofferenze che sembra incredibile che sia sopravvissuto. Ed è un survivor, in fin dei conti. Una persona che ha imparato sin da bambino il significato di parole come solitudine, violenza, abuso, prostituzione, autolesionismo.

Conoscere il suo trascorso è come ingoiare una pillola amara che sappiamo ci curerà: è disgustosa, ma necessaria per guarire. Ogni disvelamento di un tassello del suo passato è una ferita che Yanagihara infligge consapevolmente al lettore e agli altri personaggi che con Jude convivono buona parte della loro vita.

Insieme a Willem, grande amico dai buoni sentimenti che mai mancherà di fargli sentire la propria vicinanza, insieme ad Harold, prima mentore di Jude, poi qualcosa di più, insieme a tutti gli altri personaggi, prenderemo coscienza di un mostro che si cela dietro un contatto fisico negato, dietro una parola non detta, dietro un pianto trattenuto.

Ma allora, se questo romanzo mostra, come vi ho detto, un crescendo di consapevolezza così organico, cosa c’è che non va in questo libro?

Una vita come tante

Una vita come tante è una sorta di manuale delle disgrazie che possono capitare ad un essere umano, è il trattato della sofferenza, che gli uomini infliggono e subiscono dall’alba dei tempi, concentrata però nelle spalle magre di un ragazzo solo.

Man mano che si disvelano i drammi e le violenze, viene da chiedersi come sia possibile che il destino si accanisca così tanto su una sola persona. E perché l’autrice ha voluto esasperare a questo modo il concetto di sofferenza?

Se, come ha pure dichiarato Yanagihara stessa, tutto quel dolore era essenziale ai fini della storia, la perplessità che sorge in me è relativa al come, non al cosa.

Ammttiamo che da lettrice non debba considerare il fattore “plausibilità dei fatti” come essenziale nella mia valutazione. Ammettiamo pure che io possa accettare le decine di episodi macabri e raccapriccianti inseriti. Perché farlo così?

Nella ricostruzione del passato di Jude, troppi elementi stonano, non rispondendo a nessuna logica.

Il problema non è che è impossibile che alla stessa persona capitino tutte quelle cose, ma che possano essersi verificate a quel modo. Non è inserita nessuna autorità che verificasse in quali mani si stesse affidando quel bambino, né mezza figura positiva che facesse da contraltare alle disgrazie subite.

Spiegherei meglio, ma dovrei spoilerare.

In questa mancanza di logicità nella serie di sfortunati eventi (lo so, è riduttivo) che caratterizza Jude, si pone in contrapposizione la sua vita al momento della narrazione.

Attorno al Jude di oggi si riuniscono una serie di persone buone, a tratti stucchevoli, comprensive. Sempre capiscono i suoi silenzi e quasi mai forzano la mano affinché lui parli.

E quindi sono ancora qui a chiedermi: com’è possibile? Com’è possibile che, di punto in bianco, alla stessa persona capiti di trovare davanti solo il meglio che la società ha da offrire al genere umano?

Non è credibile che il mondo sia diviso in maniera così netta in buoni e cattivi. Non è plausibile. E se anche, come ho detto, devo rinunciare alla plausibilità, ho bisogno di più equilibrio. La bilancia dei sentimenti non può pendere solo da una parte, giusta o sbagliata che sia.

Parlando con Nicole, che ha amato questo libro, è uscito fuori qualcosa che mi ha fatto molto riflettere.

Per lei quei sentimenti sono plausibili, si è anzi riconosciuta in alcuni dei comportamenti più presenti nel romanzo (di Jude, o di Willem).

Ed è vero. Io non sono stata capace di identificarmi con nessun comportamento, non ho condiviso la maggior parte delle cose lette. Zero empatia, zero legami.

Quindi sta tutto qui? Nella capacità del lettore di immedesimarsi o meno nella storia? Io credo di no. Non credo che basti questo per definire quanto un libro ci sia piaciuto. Perlomeno, non basta a me.

Una vita come tante, Yanagihara
Hanya Yanagihara

Un altro aspetto che mi ha fatto tentennare è il tema dell’amicizia, altro grande protagonista assieme al dolore.

L’amicizia qui non ha bisogno di chiedere, capisce al volo. Per questo la scelta di dare, a metà romanzo, una direzione diversa al sentimento più bello del mondo non può essere di mio gradimento.

È come rinnegare il ruolo che questo legame ha avuto fino a quel momento per ingraziarsi il lettore, in stile fan-fiction. Chi ha letto capirà, chi non lo ha letto mi perdoni.

Devo riconoscere, però, che davanti ai tanti punti di domanda, è stato fatto un lavoro quasi certosino di ricostruzione della gestione del dolore.

Come pensa e si comporta un uomo che ha subito violenze, come percepisce in maniera sempre distorta la propria presenza in funzione degli altri. Jude è descritto con una cura dei dettagli che farebbe invidia anche ad un terapeuta.

Quel che è certo è che leggere Una vita come tante è una vera e propria esperienza di lettura. Ti fa incazzare, a tratti crudo a tratti melenso, è un libro che viviseziona il dolore e ci pone davanti all’interrogativo “Come ti comporteresti davanti a tutto questo?”.

Mi sento quindi, nonostante le tante perplessità di cui ho provato a spiegarvi l’origine, di consigliarlo. È la prima volta, da quando leggo, che mi succede di trovarmi davanti ad una cosa simile, e davanti alla sua unicità (in tutte le accezioni del termine) non posso che cospargermi la testa di cenere.

Giovanna Nappi

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