Con Il blu delle rose, Tony Laudadio torna in libreria per NN Editore proprio oggi, giovedì 27 agosto.
È un romanzo che possiamo definire distopico, e che apre un sottogenere nella letteratura contemporanea in Italia che sembra interessante e sicuramente unico.
Siamo in Italia, nel 2047: la tecnologia ha subito, in questi 27 anni, un’impennata non indifferente.
La ricerca scientifica, specie in campo genetico, è infatti giunta ad una scoperta sorprendente.
Nella catena genetica di ogni essere umano, è stato infatti individuato il cosiddetto gene C, considerato la causa dei comportamenti criminali nelle persone.
A seguito della scoperta, dopo non poche difficoltà legate soprattutto all’aspetto morale della questione, è stata varata una legge, la Legge Genesi, che obbliga tutte le future madri a sottoporre ad un test genetico il proprio feto.
Nel caso in cui si dovesse rilevare la presenza del gene C, la legge obbliga all’interruzione di gravidanza.
Le conseguenze sociali di una legge come questa sono a dir poco sconvolgenti. Il 90% degli atti criminali è stato così debellato, permettendo agli individui di vivere una vita pressoché sicura, senza paura.
Alla scoperta ha contribuito anche la scienziata Elisabetta Russo, luminare nel campo e per questo spesso coinvolta in cerimonie pubbliche, scientifiche e governative.
In una società che ha debellato il “virus” della criminalità, in una società in cui le persone si spostano in automobili completamente automatiche e in cui dispongono di tutto ciò che potrebbero desiderare, un evento interrompe la routine.
Quello che succede a Elisabetta Russo la costringerà a ridiscutere le proprie certezze e a ripensare all’intera costruzione sociale che, fino ad allora, aveva considerato una macchina perfetta.
Il blu delle rose descrive una questione estremamente spinosa, sulla quale ci siamo già interrogati, in modi e ambiti differenti, anche oggi: il futuro del progresso e la sua degenerazione.
Se la tecnologia e la scienza hanno raggiunto dei livelli ancor più alti rispetto a quelli che stiamo già vivendo, e quindi il progresso è arrivato al punto di essere in grado di riconoscere geneticamente un criminale, allo stesso modo gli uomini hanno giocato a essere Dio.
Questo modo di agire nel nome della scienza, ma incurante delle implicazioni delle loro scelte, ha condotto a una specie di involuzione.
Se già nel 2020 ci capita di meravigliarci, se non scandalizzarci, rispetto alle potenzialità della tecnologia e al potere che essa ha sulla vita degli esseri umani, è abbastanza plausibile che di qui a trent’anni si possa assistere a situazioni di questo tipo.
Di unico, Il blu delle rose, ha proprio questo: la necessità da un lato di progredire come società, dall’altro lato di non dimenticarsi che siamo tutti esseri umani, persone immerse all’interno di un contesto che ci plasma e ci forma.
La riflessione morale sull’impossibilità di definire un essere umano soltanto leggendo il suo codice genetico.
La chiave per sviluppare questo concetto è narrativamente molto riuscita. Ci troviamo davanti un prodotto innovativo, che è capace di raccontare una degenerazione remota ma plausibile.
A dare man forte al risultato finale, innanzitutto la scelta narrativa e la cifra stilistica, più evidenti nella prima parte del romanzo.
Nella parte centrale, sembra di assistere ad una spaccatura. Viene dato forse troppo spazio agli aspetti più sentimentali della protagonista e dei personaggi che attorno a lei ruotano.
Nel fossilizzarsi sulla nascita di sentimenti amorosi nei confronti di qualcun altro, nel sostare troppo nell’analisi psico-sentimentale di Elisabetta Russo, Laudadio tende ad abbassare un po’ sia il livello stilistico del libro che il ritmo stesso della storia.
Storia che però riprende nella seconda metà del romanzo con lo stesso vigore iniziale.
È come se Il blu delle rose seguisse un andamento a curva, a volte rallentato ma nel complesso molto efficace.
A quale giustificazione vogliamo appigliarci per legittimare le nostre azioni?
In nome di quale valore scientifico o sociale siamo disposti a privare l’altro della libertà di scegliere?
Elisabetta Russo l’ha capito, e forse anch’io.
Giovanna Nappi