Il fiume era giovane e smilzo. Al principio affiorava dalla rossa terra argillosa tra i boschi di pini del Mississippi, e poi si snodava, bruno e lento, sopra un letto di minuscoli ciottoli grigi e ocra, in mezzo agli alberi, non più alto di una mano, profondo come tre uomini in piedi l’uno sull’altro, fino alle pianure verdi e sabbiose del golfo del Messico. Avanzava strisciando, ampio e stretto, attraversato da ponticelli di legno e cemento, orlato di sottili frammenti di spiaggia bianca, dentro e fuori dai boschi, prima di dividersi nel bayou e svuotarsi nel mare. Verso la fine del suo corso, su uno di questi ponti, ritti là dove si inarcava, c’erano due adolescenti, gemelli. Scavalcato il parapetto, si tenevano aggrappati al metallo caldo e sudato alle loro spalle. Sotto di loro, l’acqua del fiume Wolf era scura e profonda, attraversata dalla corrente. Si preparavano a saltare.
Così si apre l’ultimo capitolo della trilogia di Bois Sauvage La linea del sangue pubblicato a fine luglio da NN Editore con la traduzione di Monica Pareschi. Descrivere lo stile di Jesmyn Ward è un’impresa complessa: da un lato parliamo di un modo di scrivere preciso, puntuale e privo di orpelli che appesantiscono la lettura, dall’altro ci troviamo di fronte a una narrazione incentrata sulle associazioni sensoriali. La Ward si conferma grande narratrice dell’America più cruda, ruvida e grezza, sporcata dal sudore della fatica e dal sangue degli ultimi, di quella realtà contaminata dalla povertà e dalla disperazione, arsa dal sole quanto dal desiderio di rivalsa e sopravvivenza.
In questo capitolo che, curiosità, è stato scritto per primo ma ha visto la pubblicazione come ultimo della trilogia, gli eventi narrati precedono l’uragano Katrina e Salvare le ossa. Protagonisti sono due gemelli, Christophe e Joshua che conosciamo nel periodo più delicato delle loro vite, quello che segue il diploma. Giovani uomini non ancora maturi e in grado di prendere le decisioni migliori, combattono contro un destino che li vuole arrancare per andare avanti, affannati e spesso demoralizzati. Si metteranno, subito dopo aver concluso il percorso di studi, alla ricerca di un lavoro, per rendere orgogliosa la nonna cieca Ma-mee, ma anche se stessi. Per dimostrare che a un futuro di insoddisfazione e mediocrità può esserci un’alternativa.
Ma le cose non andranno come sperato, almeno non per entrambi.
Il legame indissolubile fra i due fratelli sarà incrinato dal destino beffardo: se per Joshua la strada verso l’indipendenza economica sembra spianata (troverà subito un lavoro), per Christophe si apriranno le porte riservate ai più disperati e deboli, inizierà a spacciare.
La droga, lo sballo, ma anche la voglia di evadere da un mondo che pare così ingiusto sono il perno della narrazione esattamente quanto il ruolo della famiglia. I due fratelli sotto l’ala protettrice di una nonna che li ama e li segue, per quanto la sua condizione ed età permettano, sono stati abbandonati da una madre partita alla ricerca di fortuna ad Atlanta e da un padre con problemi di tossicodipendenza e alcol alle spalle.
Quanto la presenza dei genitori condiziona il futuro dei propri figli? La risposta che ci dà la Ward è tantissimo.
Quando non sappiamo da che parte guardare, quando tutto ci sembra insoddisfacente e siamo tentati dal prendere decisioni impulsive, dettate da incoscienza o rassegnazione, una madre (o un padre) che ci ferma e ci fa ragionare può essere l’unica possibilità di salvezza.
Ed è proprio quello che manca ai due gemelli: sono sin da subito gettati in un mondo per il quale non erano pronti, con una guida sì, ma una guida limitata.
Sono artefici delle loro vite, delle scelte sbagliate e delle loro conseguenze .
Devo ammettere che la Ward si conferma una delle scrittrice più interessanti degli ultimi anni. Questo racconto agrodolce di un’America devastata è, per l’appunto, devastante. Dalle parole dell’autrice si sentono gli odori della terra riarsa, dell’erba fumata per sfuggire alla noia, dell’olio sui capelli per fare le treccine, del mare e del porto. Della stanchezza quanto del dolore, dell’amore quanto della rabbia.
Una scrittura evocativa che convince ancor più chi ha letto i primi due libri della trilogia, ma che può essere un buon modo per entrare in contatto con la due volte vincitrice del National Book Award.
Le vedeva sopravvivere, danneggiate e scaltre.
Immaginava banchi di triglie morire vecchie e grasse, satolle d’acqua e palude, gonfie fino a scoppiare, finché il fiume sfociava nella laguna salmastra non le spazzava via con la corrente. Sempre più a largo, e per tutta l’ampiezza della baia, finché le carcasse, ancora sature fino al midollo della memoria racchiusa nel ventre fertile del bayou, si adagiavano sul fondo del golfo del Messico, a mutarsi nel nero sedimenti che ricopre il grembo antico del mare.
Nicole Zoi Gatto