Un’altra America è il nuovo progetto de I Bookanieri. Ma procediamo con calma, dalla genesi.
L’AMERICA DEI FILM. Quando ero piccola, il mio sogno era quello di visitare Parigi. Crescendo e accumulando film (molti di Woody Allen) e libri (oh mio caro Paul Auster) ho iniziato silenziosamente a sognare l’America: grattacieli, l’Empire State Building, Central Park. È iniziato così il mio rapporto con quel continente che appare meno lontano del solito, nei giorni di buona.
L’ho ridisegnato a mente milioni di volte, da allora, grazie alle decine di puntate di Friends e ai monologhi di Basta che funzioni, intrecciando le mie velleità intellettuali da ragazza di provincia alle tante storie che in molti hanno saputo raccontare magistralmente.
Questo rapporto che definirei unidirezionale – l’America ignora del tutto la mia esistenza, e visti i tempi chissà quando potrò metterci piede – è cresciuto florido per dieci anni della mia vita, approssimativamente dai venti ai trent’anni.
Poi, complice l’età matura (ho una mentalità antica, un tempo a trent’anni si era già belle che andate), ho iniziato a ripensare a tutto l’apparato sul quale mi ero seduta ad ammirare l’America.
Quasi senza accorgermene, anche le mie letture hanno subito un cambiamento notevole. I libri sono stati in più occasioni lo strumento per elevarmi: era successo da bambina, quando mi sentivo esclusa e a volte bullizzata; era successo al liceo, quando mi ero trovata senza amici, era successo all’università, quando ancora non sapevo chi fossi; era successo dopo la laurea, nel vuoto delle prime responsabilità e del trasferimento lontano da casa.
È successo anche stavolta.
UN’ALTRA AMERICA. “Un’altra America” nasce così, come un’illuminazione sulla via di Damasco dopo anni di convinzioni. Sarà atipica nel suo genere, se già vicina ad altri progetti non lo so, ma frutto di un’esigenza tutta mia. È un progetto che sento così interiormente che non avrà bisogno di farsi spazio urlando per emergere nella giungla del web, perché non è questo il mio obiettivo.
La mia priorità non è tanto quella di valorizzare le voci autoriali più importanti secondo i manuali di letteratura moderna e contemporanea, quanto l’esigenza di servirmi delle parole di alcuni scrittori per raccontare storie di violenze, soprusi, diritti violati, speranze infrante.
Ciò che proverò a raccontare è la grande contraddizione americana in contrapposizione all’America patinata che siamo stati abituati a vedere sul grande schermo.
JAMES BALDWIN. L’idea di concretizzare i pensieri sparsi in una vera e propria rubrica è nata però da una scintilla, scaturita da un autore in particolare. Grazie alla pubblicazione in Italia di alcuni dei suoi testi più significativi, mi sono imbattuta quasi per caso nella figura di James Baldwin (New York, 2 agosto 1924 – Saint-Paul-de-Vence, 1° dicembre 1987). Non lo conoscevo prima, ma quando ho letto il suo nome la prima volta mi sono subito incuriosita, e ho iniziato a cercare informazioni.
Ultimo di nove figli, cresce a New York in una famiglia povera e credente. Sin da giovanissimo, è ben consapevole della sua condizione e, allo stesso tempo, delle sue capacità.
«Sapevo di essere nero, ma sapevo anche di essere molto sveglio. Non sapevo come avrei usato il cervello, né se avrei potuto usarlo, ma quella era l’unica cosa che potevo usare».
L’esperienza sul pulpito come predicatore gli permette di entrare a contatto con la disperazione del genere umano, che lo segna più di quanto sia consapevole in quel momento. Sarà questa, per sua stessa ammissione ripensando a quegli anni, la miccia per diventare uno scrittore.
L’INCONTRO CON RICHARD WRIGHT. Baldwin si trova al Greenwich Village: è qui che incontra lo scrittore Richard Wright, figura di riferimento per quanto riguarda i temi razziali, che sarà perno centrale degli accadimenti futuri e più importanti. In questo periodo si occupa principalmente di recensioni editoriali, collaborando con riviste come freelance.
Grazie a Wright, vince una borsa di studio a Parigi, dove trova la giusta distanza dalla società americana in cui era cresciuto per poterne finalmente scrivere. D’ora in avanti la Francia e gli Stati Uniti saranno i riferimenti geografici e culturali della sua vita.
Sono anche gli anni dei primi scritti, da Go tell it on the mountain (1953), opera autobiografica sulla giovinezza trascorsa ad Harlem, a Notes for a native son (1961) e Giovanni’s Room (1956): omosessualità, divario e discriminazioni razziali, identità nera, lotta antirazzista.
MOVIMENTO PER I DIRITTI CIVILI. Fa ritorno negli Stati Uniti all’inizio degli anni Sessanta per prendere parte alla lotta per i diritti civili, viaggiando nel sud del Paese per trascrivere le testimonianze e la condizione degli afroamericani. Da questa esperienza ne uscirà fuori The fire next time (1963).
Baldwin avrà sempre un approccio pacifista rispetto alla rivendicazione dei diritti civili. Per questo motivo entrerà in opposizione con la storica organizzazione rivoluzionaria afroamericana degli Stati Uniti, le Pantere nere, e con il suo esponente Eldridge Cleaver. L’aver visto a distanza quei luoghi e quelle persone gli hanno permesso di ricavarne una visione “da fuori”, appunto, non sanguinaria ma più onesta.
I fatti di cronaca di quegli anni, però, faranno da contrappeso a questo atteggiamento. Sono gli anni della morte di Malcom X e Martin Luther King: con queste uccisioni si mina qualcosa di indefinibile, dentro cui Baldwin si era quasi rintanato. Ne scaturisce una disillusione profonda, che non compromette ma scalfisce parzialmente i suoi ideali di fratellanza e amore. If Beale Street could talk (1974) si inserisce in questo filone.
Tra saggi e romanzi, proseguiranno gli ultimi anni della sua vita, parallelamente alla professione di insegnante.
James Baldwin ha rappresentato, nella sua atipicità, uno degli scrittori statunitensi più importanti per il dibattito antirazziale. E la sua storia e le sue posizioni saranno terreno fertile per “Un’altra America”.
Si partirà con lui, leggendone i libri, documentandone la genesi, per lasciare il testimone ad altri scrittori e scrittrici che hanno contribuito alla costruzione di un pensiero collettivo.
Giovanna Nappi