Se la strada potesse parlare rappresenta il primo capitolo della mia personalissima storia d’amore con questo autore che ho scoperto soltanto nel 2019 grazie alla pubblicazione in Italia dei suoi libri da parte di Fandango Libri.

Disperazione e ingiustizia sono i pilastri che reggono il mondo dei personaggi di James Baldwin. Non c’è nulla, in ciò che racconta, che possa anche solo lontanamente lasciar intendere che la sua creatività narrativa abbia preso il sopravvento sulla realtà.
Imbattersi in uno qualunque dei suoi romanzi è quanto di più fortunato possa capitare nella vita di un lettore.
In una dichiarazione di Baldwin in riferimento al titolo scelto per questo romanzo – If Beale Street Could Talk – racconta che Beale Street, ovunque essa si trovi, è una strada che ha fatto parte della vita di ogni afroamericano nato negli Stati Uniti, descrivendone in qualche modo la sua storia, fatta di blues, di ingiustizia, di rivendicazione e paure, di ritmo e di passione.
Contrariamente a queste premesse, Se la strada potesse parlare è innanzitutto una storia d’amore: la storia d’amore tra Tish, diciannovenne afroamericana, e Fonny, che al momento della narrazione è rinchiuso in carcere per una condanna pendente sulla sua testa che lo accusa di essere il responsabile di uno stupro di una donna portoricana.
I due sono cresciuti assieme, e con languida lentezza si sono innamorati l’una dell’altro. Posti davanti ad una situazione più grande di loro, dove non hanno voce in capitolo rispetto ad un sistema che denigra e schiaccia e annichilisce l’uomo di colore, incurante della sua innocenza, Tish e Fonny provano ad affrontare il dramma di quella condanna, con una ulteriore variabile sulle spalle, la gravidanza di Tish.
A partire da questo plot narrativo iniziale, Baldwin scava fino all’osso lasciando il lettore a nervi scoperti. La sensibilità è portata al massimo: senza urlare la denuncia del sopruso, il lettore vive il sopruso stesso attraverso Tish, il suo dramma interiore riflesso sulla sua famiglia, nel sogno mai del tutto infranto e allo stesso tempo mai del tutto intatto di un riscatto per Fonny, nella sfiducia nei confronti dell’uomo bianco che, anche quando promette di aiutare, persegue fini altri.
Tra passato e presente, il lettore viene introdotto in una quotidianità in cui l’uomo nero è discriminato anche da chi si presume dovrebbe tutelarlo.
Il retaggio culturale che ruota attorno ai personaggi dei suoi libri è stato inglobato al 100%, col risultato che nessuno è al sicuro, neanche nelle mura della propria casa.
Ma nonostante il mondo intero complotti affinché il male abbia il sopravvento, persiste il sentimento di speranza, come controparte necessaria a sopravvivere all’interno di una cornice scomoda e dolorosa. Ed è proprio dinanzi a questo contrasto che emerge l’incredibile umanità di Baldwin, la delicatezza e il riguardo che conserva proprio in virtù di quanto ha visto e ha vissuto.
Se pure questo romanzo non avesse le fattezze di una storia compiuta, resterebbe quell’agrodolce in bocca che un po’ disgusta e un po’ accarezza il palato, che ho ritrovato anche nei libri successivi di Baldwin.
Il più apparentemente insignificante uomo che appare nella scena – la signora del banco di frutta, i fedeli seduti all’interno di una chiesa – acquista un significato più grande: è il nostro occhio che guarda e interviene in difesa di qualcuno che giudichiamo più debole. E’ il nostro occhio che osserva sprezzante qualcuno che riteniamo diverso da noi. E’ il nostro occhio che cade su un’ingiustizia ma passa oltre per non avere problemi.
In Se la strada potesse parlare l’umanità spazza via ogni pretesta di finzione letteraria, perché non serve; la realtà sta in piedi da sola, malconcia ma indipendente. Ed è un’umanità che si svilupperà con eco maggiore in Un altro mondo, il prossimo libro di cui vi parlerò.
Giovanna Nappi