Buon pomeriggio! Oggi ho deciso di dedicare un approfondimento ad uno in particolare tra gli eventi cui ho partecipato al Salone Internazionale del Libro di Torino.
L’evento in questione è: “IL PIÙ GRANDE SCRITTORE AMERICANO, SECONDO ME. Philip Roth, secondo Francesco Piccolo incontra David Foster Wallace, secondo Sandro Veronesi”. Già il titolo è spettacolare. Ospitato nella bellissima Sala 500, adibita all’interno del Centro Congressi di Lingotto Fiera, l’incontro si è rivelato sin da subito interessante.
Ammetto la mia grande lacuna in quanto lettrice, dal momento che ho letto Pastorale americana di Roth (che ho amato) e nient’altro. Intendo recuperare il prima possibile quanti più libri di entrambi gli scrittori (oltretutto Infinite Jest è lì, sullo scaffale, che mi fissa di sottecchi, attendendo il momento in cui avrò il coraggio di leggerlo). Pur non essendo “preparata” al dibattito, me ne sono subito sentita parte integrante, grazie a due personalità eccezionali, in grado di coinvolgere il pubblico.
Innanzitutto, i due autori italiani hanno raccontato aneddoti di vita personale in cui si sono imbattuti in Roth e Wallace. Mi ha molto colpito il racconto di Veronesi, la cui lettura di Infinite Jest – ci svela – iniziò in originale, dal momento che non esisteva in Italia alcuna traduzione; nel corso della lettura, che procedeva, sì, ma a rilento, Veronesi racconta alla perfezione la sua sensazione dell’epoca: quel senso di smarrimento che attanaglia il lettore quando – mentre legge – percepisce di perdere gran parte del senso di quelle pagine, “come quando raccogli l’acqua con le mani: ne trattieni un po’, ma il resto va perso”. Quella sensazione lo spinse a rivolgersi agli editori amici per proporre un’edizione italiana del romanzo, ma ricevette soltanto risposte negative. Scelse così di occuparsi in prima persona della traduzione.
Questo episodio dice molto più di quel che si creda: è la testimonianza della tenacia che probabilmente soltanto un lettore è in grado di provare nei confronti di un autore.
L’incontro prosegue con un confronto tra questi colossi. La scrittura di Wallace si fonda su un principio, vale a dire la consapevolezza che non ci sia un percorso lineare per giungere alla verità delle cose; perché allora non costruirsi da solo la strada da percorrere? Le sue, sostiene Veronesi, sono digressioni per costruire quella realtà. Roth invece è uno scrittore che va dritto al nocciolo delle cose, non si serve di digressioni per descrivere la realtà. Roth è un po’ come Woody Allen: ne riconosci la bravura immensa, ne hai letto la maggior parte dei libri, ma tendi a confonderli sempre. Certo, tra i suoi lavori tutti ricordano perfettamente Pastorale Americana e Lamento di Portnoy, ma gli altri tendono a sovrapporsi gli uni con gli altri. Questo dipende dal fatto che egli concepisce la letteratura come una realtà unica: in sostanza, Piccolo ci sta dicendo che è come se Philip Roth avesse scritto un unico grande romanzo.
Con Portnoy Roth ha superato il limite che non aveva osato superare sino ad allora. Nei suoi libri, da quel momento in poi più che mai, l’autodenigrazione diventa la chiave di lettura, il tentativo di distruggere se stesso come maschio, come vecchio, come americano. Mette in scena personaggi che in qualche modo feriscono il lettore, che non possono piacere veramente.
Wallace e Roth hanno avuto un rapporto molto complicato con le donne, e offrono un’immagine maschile quasi speculare. Se il primo ha descritto le figure maschili in quanto complesse (defraudando la donna di quella caratteristica che da sempre le viene attribuita), raccontandone quindi la fragilità anche davanti al sesso – una sorta di tentativo di farsi voler bene dalle donne, dicendo “Io vi racconto la parte più luminosa che abbiamo” –, il secondo svela degli uomini il lato oscuro, legato al sesso e alla violenza. Un esempio è quello presente ne L’animale morente: davanti ad un dipinto di Velasquez, un uomo e una donna osservano il quadro e conversano (lui descrive l’opera con entusiasmo, lei ascolta e apprezza); in realtà Roth dice a chiare lettere che questa è la “pratica” cui entrambi i personaggi devono sottostare per arrivare al sesso. Il maschio deve parlare di Velasquez, la femmina deve fingere di esserne interessata.
Ci sarebbero tantissimi altri dettagli che non sarò in grado di riportarvi (gli appunti presi durante l’incontro sono stati minimi rispetto al totale), ma spero di essere stata in grado di trasmettervi almeno una parte di quello che ho vissuto.
Giovanna Nappi