Primo incontro ravvicinato con Richard Yates, da troppo tempo rimandato. Revolutionary Road ha meritato il tempo dell’attesa. Un capolavoro della letteratura americana del Novecento che andrebbe riletto più e più volte, per riscoprirvi tutte le implicazioni sociali e letterarie che racchiude.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 1961 e tre anni dopo in Italia, riscosse il grande successo soltanto dopo la morte dell’autore. Al centro la famiglia Wheeler, Frank ed April: una coppia trasferitasi nel complesso di case di Revolutionary Hill. A Revolutionary Road conducono un’esistenza senza infamia né lodi. Lui, impiegato alla Knox come suo padre, trascorre le ore in ufficio temporeggiando ogni imminenza, in attesa che si faccia l’ora di uscire dall’edificio e tracannare due tre aperitivi prima di tornare da sua moglie; lei, madre di due figli, velleità artistiche miseramente fallite come attrice, casalinga imperfetta.
Da contorno, una città da cui è stato necessario allontanarsi, per rifugiarsi nella più tranquilla campagna. Dei vicini di casa che, secondo ogni cliché, sono invadenti e forzatamente gentili nei loro riguardi. In particolare la signora Givings, la perfetta moglie americana, per la quale ogni cespuglio o animaletto o arcobaleno sono “carini“.
Già dall’utilizzo degli aggettivi, si percepisce quella nota critica che rappresenterà una costante in tutto il romanzo. Yates ritrae lo spaccato dell’America degli anni Cinquanta e tutte le fallimentari caratteristiche della società. Per farlo, però, non ha bisogno di inventarsi nulla: il materiale è tutto lì, fornito da niente poco di meno che quegli animali morenti che sono gli uomini e le donne americane.
Scontento e ipocrisia sono gli ingredienti che vengono quotidianamente serviti a cena, tavola imbandita. Le ambizioni personali esistono, ma si coltivano nel cantuccio della propria camera da letto come possibilità remota di un futuro altrettanto lontano.
Il cadenzato scorrere dei giorni a Revolutionary Road diventa per i Wheeler un claustrofobico e perenne stato d’animo, dal quale tentano entrambi di evadere, con scappatelle extraconiugali, litigate furiose, gesti privi di senno. Yates ci conduce nelle pareti della loro vita domestica, della quale descrive soprattutto i non detti: nel gioco delle parti, ognuno dei due protagonisti agisce e parla premeditando ciò che l’altro avrà da rispondergli, per cui il risultato è un dialogo mai autentico, sempre costruito, comunque inefficace.
La straordinarietà di Yates e di questo romanzo sta nel fatto che, proprio quando si è sul punto di esplodere, l’autore rimette tutti i tasselli in ordine (come farebbe qualunque perbenista, d’altronde: i vicini non possono sentire che litighiamo, cosa penserebbero?): o con April che lava i piatti, o con Frank che conta fino a dieci, o con l’intervento di uno dei tanti personaggi satellite di questa storia. In questo modo, rende ancor più disperata la sua denuncia, e realisticamente perfetta la narrazione.
Giovanna Nappi