È diventato il simbolo dell’anticonformismo giovanile, un personaggio entrato a far parte dell’immaginario collettivo: sto parlando de Il giovane Holden, di quel ragazzo nato dalla mente di J. D. Salinger.
Ieri, lunedì 27 gennaio, sono trascorsi dieci lunghi anni dalla scomparsa di uno degli autori americani più emblematici ed apprezzati a livello internazionale, e ne sentiamo ancora la mancanza. Sarà probabilmente l’astinenza dalle sue opere, saranno i sogni di riscatto che ci hanno accomunato a Holden, saranno moltissimi i fattori scatenanti ma Salinger ha lasciato un vuoto che i lettori non hanno saputo colmare, che io non ho saputo colmare.
Proprio lo scorso anno, durante il Salone internazionale del libro di Torino, un figlio parsimonioso di notizie – il caro Matt, con il quale ho avuto il piacere di scambiare un breve saluto assieme a Nicole – ci raccontava di suo padre attraverso i ricordi, lasciando aperta una porta, uno spiraglio: quella della pubblicazione postuma dell’infinito materiale che Salinger ha lasciato. Perché, seppure definitiva fu la scelta nel 1953 di isolarsi dalla società per condurre una vita privata lontano dai riflettori, altrettanto ferma fu la decisione di continuare a scrivere. E così fece.
Pare però che la mole dei documenti sia tale da richiedere un lavoro imponente, anni di lavoro.
La villa di Cornish, nel New Hampshire, ha ospitato la seconda e ultima parte della sua vita e tutti, segretamente, abbiamo sognato di bussare a quella porta, come hanno fatto moltissimi studenti all’epoca solo per riuscire a vederlo di sfuggita, o per chiedergli qualcosa di Holden.
Se così non è stato, come ahinoi sappiamo, nel tempo tutti i suoi lettori hanno contribuito a creare, con le proprie aspettative, quel mito intramontabile legato alla figura di Holden Caufield, il catcher in the rye.
Non racconto nulla di nuovo parlandovi di quel titolo così stravagante ma che all’occhio più attento suona convincente. A colloquio con la sorella Phoebe, Holden, interrogato su cosa voglia fare da grande, sostiene di voler afferrare i bambini, salvandoli così prima che cadano nel burrone, mentre giocano in un campo di segale.
L’atto di raccogliere viene quindi elevato ad azione di protezione di una “categoria” di esseri umani per antonomasia innocente, quella rappresentata dai bambini appunto. Con quest’atto Holden sta tentando di salvarli dalla cosiddetta phoniness, e dai phonies contro cui lui strenuamente combatte.
È questo un tema ricorrente in tutto il romanzo, ed è uno dei motivi che lo ha consacrato, nel mio personale gusto (ma suppongo in quello di generazioni di ragazzi) come tra i più significativi. Imbattersi in Holden e nella sua battaglia in età adolescenziale o post-adolescenziale è ciò che di meglio possa capitare a qualcuno: la rabbia incontenibile nei confronti del mondo, che si rivela un pessimo ascoltatore a quell’età (e non solo) è una sorta di limbo in cui ci culliamo, alimentando e fomentando l’insofferenza.
Salinger ha dato vita ad una figura letteraria in grado di incarnare tutte quelle insicurezze e quelle frustrazioni, senza esagerare né in filosofismi – rischio in cui è facile incorrere quando si sta insegnando qualcosa ad un ragazzo – né in esagerazioni. Le vicende che interesseranno Holden nel corso di tutto il romanzo non sono eccezionali, e come avrebbe detto Lucio Dalla:
«Ma l’impresa eccezionale,
Dammi retta,
è essere normale.»
L’anticonformismo che si respira ne Il giovane Holden è normale, appunto, ma per questo assume le fattezze dell’assoluto.
Giovanna Nappi