Amore folle, ossessionato, disfunzionale.
Amori incredibilmente distruttivi, morbosi, illusori. Ma anche amori appaganti, rivelatori, salvifici.
La vicenda amorosa – in qualunque accezione la si voglia intendere – ha popolato centinaia di migliaia di pagine di libri di ieri e di oggi, o ricreando un cortocircuito emotivo da cui non si è mai più fatto ritorno o sviscerando quelle che Sorrentino ha definito «le conseguenze dell’amore».
Senza la pretesa di riassumere, in questo articolo, l’intero scibile letterario in materia, è pur vero che nella mia memoria di lettrice alcune storie hanno scalfito più d’altre la corazza, con scene che sono entrate di diritto a far parte del mio immaginario di relazione amorosa anche laddove negativa. A disorientarmi è stato soprattutto il fatto che, in ognuno dei quattro casi che vedremo, la straordinarietà del racconto non abbia mai sconvolto perché non credibile, assurda, ma piuttosto perché tristemente vera.
Dell’amore di Dorigo nei confronti della Laide non si potrà, forse, mai dire abbastanza. In «una delle tante giornate grigie di Milano però senza la pioggia, con quel cielo incomprensibile che non si capiva se fossero nubi o soltanto nebbia al di là della quale il sole, forse», per Buzzati l’amore merita un posto di prim’ordine, addirittura nel titolo. È Un amore, letto per la prima volta nel 2010 mentre vivevo il mio personalissimo dramma sentimentale.
Antonio Dorigo, architetto quasi cinquantenne, è poco avvezzo ai rapporti con l’altro sesso («La donna, forse a motivo dell’educazione familiare, gli era parsa sempre una creatura straniera, con una donna non era mai riuscito ad avere la confidenza che aveva con gli amici. La donna era sempre per lui la creatura di un altro mondo, vagamente superiore e indecifrabile»). È più che altro solito frequentare la casa di appuntamenti della signora Ermelina: in quelle stanze conoscerà Adelaide, detta Laide, ballerina della Scala, minorenne e più che mai sfuggente.
L’innamoramento iniziale di Dorigo verso questa poco più che bambina si tramuta, prestissimo, in ossessione. Quanto più Laide sfugge e ignora, tanto più lui si lascia travolgere da una smania di possesso, sottomissione, che pensa di esercitare ma di cui è – nell’io più profondo – vittima. Per soddisfare e anzi mettere a tacere i propri appetiti, Dorigo si affannerà in forme di coercizione fallimentari ed estenuanti, capaci solo di aumentare le nevrosi già latenti.
Per Buzzati l’amore è «una maledizione che piomba addosso», è complotto e straziante attesa, è insaziabile, nel senso che non può essere saziato.
Di forme di possesso e di amore ossessionato c’è un’altra grande testimonianza, anch’essa novecentesca e italiana. La noia di Alberto Moravia, altro caposaldo delle letteratura del secolo scorso letto in uno sfortunatissimo periodo personale (ma fortunatissimo per le letture). Qui l’amore assume però altri connotati.
In via Margutta, Dino fa il pittore, più per tentativo di emancipazione materna che per reale vocazione artistica; suo dirimpettaio è tale Mauro Balestrieri, che intrattiene una relazione con Cecilia. Alla morte di Balestrieri, Dino inizia a frequentare Cecilia.
In questo caso, quella che nasce come l’ennesima manifestazione della noia in quanto «avvizzimento o perdita di vitalità» si trasforma in strumento di appropriazione della realtà insensata attraverso il denaro e – di nuovo – la sopraffazione.
Comunque, non ricordo di avere mai amato Cecilia con tanta violenza come in quei giorni in cui la spiavo e sospettavo che mi tradisse. Mi gettavo su di lei come su un nemico che avessi voluto fare a pezzi, caro nemico, però, che ambiguamente mi incitava a farlo; e non ero quasi mai soddisfatto di un solo amplesso. In maniera significativa, la sensazione di non possederla realmente, mi assaliva il più delle volte al momento in cui, tutta vestita, dopo avermi salutato, si avviava verso la porta per andarsene; come se la sua partenza mi avesse rivelato a un tratto, in maniera tutta fisica, la sua immutata capacità di sottrarsi a me, di sfuggirmi. Allora la rincorrevo, l’afferravo per i capelli e la scaraventavo sul divano, senza badare alle sue proteste, del resto non troppo energiche, e la prendevo di nuovo, così com’era, tutta vestita, con le scarpe ai piedi e la borsa al braccio, sempre con l’illusoria idea di cancellare, prendendola, la sua autonomia e il suo mistero. Naturalmente, subito dopo l’amplesso , mi accorgevo di non averla posseduta. Ma era troppo tardi : Cecilia se ne andava e io sapevo che il giorno dopo tutto sarebbe ricominciato: l’inutile sorveglianza, il possesso impossibile, la finale delusione.
È singolare come la mia scelta, per parlare d’amore, sia ricaduta su due romanzi che in fondo di amoroso non conservano nulla. Ma è, forse, indicativo di un modo contemporaneo di guardare alle relazioni, sempre con quel senso di estraneità e diffidenza nei confronti dell’altro.
Ancor più strano è che, per il terzo “caso”, io abbia scelto la storia tra Jude e Willem in Una vita come tante. La maggior parte di lettori e lettrici che hanno apprezzato questo romanzo diventato iconico in brevissimo tempo (spoiler: io non figuro tra questi) ha speso parole di vera commozione nei confronti della relazione tra questi due uomini, in grado di amarsi nonostante gli ostacoli. Sembrerebbe una banalità, ma chi ha letto questo libro ha ben presente che qui l’espressione gli ostacoli è un eufemismo.
Ho sempre riconosciuto a Yanagihara la capacità di condurti nell’esatto punto in cui avrebbe voluto: in tal senso il ricongiungimento sentimentale tra il suo protagonista e il suo più caro amico è l’apoteosi narrativa del romanzo, è come acqua per gli assetati, quindi non sorprende affatto. Ma, per riportare il discorso sull’amore, è davvero tale quello di Willem nei confronti di Jude? È, sì, incondizionato, ma non ha forse più a che fare con la propria coscienza, con il desiderio latente di dimostrare qualcosa a sé stessi o di assopire il senso di colpa?
Willem sentiva che la sua relazione con Jude non esisteva per altri che per loro; aveva qualcosa di sacro, di lungamente cercato e di unico.
La sensazione costante avuta, nell’avvicendarsi di tragedie una dopo l’altra, è stata quella di un affetto autentico ma macchiato dall’egoismo, dall’autotutela. Più di una volta Willem ignorerà – per scelta, non per indifferenza – i segnali evidentissimi di una ricaduta di Jude nel vortice dell’autolesionismo, salvo poi tornare sui propri passi e rischiare il tutto per tutto pur di salvare l’altra persona. Non trovo quindi molto distante questa situazione da quelle disfunzionali finora descritte. È solo più latente.
E, a proposito di salvataggi, scelgo di concludere questa riflessione “a voce alta” con un amore che a suo modo è stato salvifico per chi lo ha vissuto e per chi lo ha letto. Persone normali di Sally Rooney e i suoi Connell e Marianne hanno alzato l’asticella dell’amore letterario.
È questa, secondo me, una forma particolarissima di amore: due solitudini cariche di sofferenza si incontrano e, per molte ragioni – prima fra tutte la natura intima di quella sofferenza – sono incapaci di coesistere nella tradizionale forma di relazione. Trovano però, in maniera quasi naturale, una modalità nuova di unione, un’inedita forma di sentimento che aiuta e sostiene senza la pretesa tipica di ogni persona di prevalere, di vincere.
Nonostante sia stata di gran lunga più affascinata dal prodotto televisivo che non dal romanzo, sarebbe stupido negare che Rooney abbia intercettato una certa caducità emozionale che in molti viviamo e che spesso stravolge ogni accenno di contatto umano. Pur nell’avvicendarsi di esistenze distruttive, ha però mostrato uno spiraglio – ben lontano dal lieto fine ma, a suo modo, salvifico.
La maggior parte della gente vive un’intera vita senza mai sentirsi così vicina a qualcuno.
Giovanna Nappi